Istruzioni per l’uso

Alcune cose da sapere

  1. Perché un blog nel 2021? Perché credo che sia arrivato il momento di spostare il dibattito dai social senza rinunciare alle possibilità che il web offre. È una forma di resistenza, se vogliamo. Reazionaria? È vero, l’epoca d’oro dei blog è tramontata nel decennio scorso a causa, appunto, del dominio egemonico dei social network. Non ce l’ho coi social network, ma questo lo spiegherò nel punto successivo. Tornando alla domanda principale: ho bisogno di ritrovare un mio spazio che non ha bisogno di immediatezza ma di riflessione e approfondimento. Da qui possiamo indebolire la forza centrifuga dei social network e, da lontano, osservare il tramonto capendo che il sole si trova altrove.

  2. Non ce l’ho con i social in sé: come qualsiasi forma di tecnologia sono convinto che abbiano apportato un notevole miglioramento nelle vite delle persone. Le distanze, almeno virtualmente, di colpo, si sono accorciate fino quasi a diventare in tempo reale, in un non-luogo. Facendo un esempio banale, penso a quanto uno strumento simile ci sia tornato utile e ci abbia in qualche modo allietato durante il lockdown del 2020. Tuttavia, credo che la loro efficacia vada ridimensionata, in virtù delle dinamiche che le influenze esterne ai social hanno esercitato sulle persone. Va ricordato che Facebook, Twitter, Instagram ecc. sono mezzi di comunicazione: medium tramite il quale non solo riusciamo a sapere in tempo reale come sta il nostro amico australiano, ma mezzi attraverso cui si possono manipolare e veicolare le coscienze e le opinioni (si veda il clamoroso caso di Cambridge Analytica), oltre che causare forti disturbi patologici: dipendenza da notifica, ansia da controllo, costante connessione attraverso uno schermo che ci impedisce di definire i limiti della nostra quotidianità (siete sicuri che la vostra giornata lavorativa termini nel momento in cui lasciate l’ufficio e non prosegua anche quando siete a casa e il vostro capo vi chiede, via Whatsapp, di rispondere urgentemente a quella mail di quel cliente?). Conseguenza di questi che potremmo considerare sintomi si riversano nel concetto di bolla: viviamo in un mondo sempre più polarizzato, sia offline che online, che ci porta sempre più a stringerci e a condividere con la nostra cerchia, evitando il confronto con l’opinione opposta oppure trasformandolo in scontro, sempre a difesa della propria crew. I social hanno alimentato questa polarizzazione, ma soprattutto la percezione che attorno a noi in tanti siano dalla nostra parte mentre il resto è un nemico che va sconfitto. Ciò si manifesta nel compulsivo posting su qualsiasi campo o tematica: tanto l’algoritmo mi mostrerà a quei contatti che, scientificamente, lui ha scelto essere affini a me. Ecco la morte dello spirito critico. Aggiungiamoci anche una narcisistica percezione di consenso popolare: like, commenti, condivisioni, applausi. E poi via, sotto a commentare il nemico, in massa, come i peggiori squadristi, tronfi di una vittoria ai punti, dove i punti sono i like e le reaction ricevute. Poi ognuno nella sua tana, ognuno convinto di aver trionfato con la sua retorica da quattro soldi, compiacente anche quando vuole essere contro. Perché beh, nella vita, non si sa mai. Sono troppo severo? Forse, ma prima di tutto lo sono verso me stesso, perché tutto questo lo sono stato. E adesso non lo sopporto più.

  3. Cosa trovarci qui dentro. Bella domanda. “Un po’ di tutto” è un classico valido per ogni stagione, ed è la risposta (sempre molto ipocritamente criticata) che do quando mi chiedono che musica ascolto – vi hanno mai fatto osservazioni quando vi chiedono “che film ti piace guardare?” e voi rispondete “un po’ di tutto”? Immagino di no. In ogni caso, questo spazio nasce soprattutto per prendersi una pausa – spero più lunga possibile – dalle dinamiche social. Quindi ci saranno post senza una cadenza precisa, in virtù degli eventi e del mio tempo libero. Ma soprattutto ci saranno quando i miei pensieri si saranno presi il tempo di una riflessione, senza gettare le parole in pasto a un presunto pubblico, alla ricerca di mi piace e consensi, dimenticate nel giro della prossima gag e del prossimo argomento da trattare in maniera seriosa, montati di chissà quale falsa importanza.
    Qui dentro ci troverete anche tutto quello che non posso scrivere per lavoro, per un motivo (interessi degli utenti) o per un altro: ricordo che l’Italia è il 41° posto in classifica al mondo per libertà d’espressione. Nel caso vi stupisse o vi chiediate come sia possibile, vi faccio un piccolo esempio: mettiamo che io domani scriva un articolo in cui critico, nel rispetto deontologico che il mio mestiere giustamente impone, l’operato di Tizio Caio; se Tizio Caio ha una qualche influenza economica, è molto probabile che tutte le realtà attorno a lui non collaboreranno mai con me. Se io fossi sempre intellettualmente onesto in un mestiere il cui fine è la ricerca della Verità, molto probabilmente morirei di povertà. E questo succede a qualsiasi livello di informazione. E noi ostiniamo ancora a definirci liberi.
    Ciò non significa che qui approfitterò per sputtanare gratuitamente chiunque, non mi interessa. Ma se voglio scrivere che il capitalismo mi fa schifo – e mi fa davvero schifo – e il dovermi sottomettere ogni volta al suo realismo mi fa stare male – e dio, quanto mi fa stare male, soprattutto pensare che l’alternativa è, appunto, morire povero, senza che nessuno voglia riflettere che questa non è l’unica realtà ma l’unica che ci propinano -, qui lo posso fare senza dover tener conto dell’osservazione di alcun rapporto lavorativo.
    Scrivo per lavoro, ma io voglio scrivere perché mi piace. Perché genera confronto e riflessione, non denaro. E allora lo faccio qui. Come ha detto qualcuno: tirare fuori e liberarsi dei propri pensieri, belli o brutti che siano, e fargli trovare una loro collocazione all’esterno tramite la conversazione genera consapevolezza e anima la macchina delle emozioni facendoci sentire più umani in mezzo ad una generazione di robot.

  4. Nei primi due punti ho spiegato in maniera, purtroppo prolissa, perché ce l’ho con le dinamiche social ma non con i social stessi. Per questo non ci saranno pagine associate a questo blog, ma solo avvisi estemporanei sui miei profili personali. Creare profili collegati a questo blog non farebbe altro che farmi cadere nella trappola delle notifiche, dei like e delle visualizzazioni. Twitter e Instagram li ho sempre usati poco (perché li ho sempre usati male); su Facebook ho smesso di postare da qualche mese. Sto meglio, ho trovato altro tempo quando pensavo di non averne più e l’ho impiegato per ricominciare a leggere: sto per chiudere il sesto libro in tre mesi. Non voglio vantarmi, ma sono più di quanti ne abbia letti negli ultimi cinque anni. Una pacca nella spalla me la do da solo.
    Non ho alcuna pretesa di visibilità con questo blog. Chiaramente, se qualsiasi cosa scritta dovesse generare interesse, discussione, dibattito, riflessione ne sarei più che felice. Per ora mi accontento di tirare fuori le parole che mi fronzolano per la testa.

  5. Questo blog è fortemente ispirato alla figura, agli scritti e ai libri di Mark Fisher. Il nome di questo blog è un tributo a Mark Fisher. La frase che trovate come copertina in home page è di Mark Fisher. Questo stesso post è un omaggio a Mark Fisher.

    È tutto, il resto lo scoprirete leggendo.

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